Zucchero

Quella volta la segretaria ordinò a me e a Starace di rubare zucchero in un bar, perché in ufficio era finito e bisognava addolcire il caffè degli ospiti. Scegliemmo il nostro bancone preferito, nel seminterrato davanti al Tribunale. Indulgemmo in scherzi con la barista, arraffando bustine con nonchalance mentre rideva. La vecchia titolare piccolissima, nascosta dietro la cassa, aveva visto tutto. Ci fece sbarrare l’uscita da un cameriere. Fummo costretti a svuotare le tasche. “Niente asporto, si consuma qui”, sibilò la vecchia, tra i mormorii di decine di avventori. Guardai Starace, era paonazzo. Sentivo il viso pulsare, dovevo esserlo anche io. La vecchia ci fece un cenno col mento e bastò. Scartammo le bustine, prima a una a una, poi a mazzetti, e, prima a una a una e poi mazzetti, ci versammo lo zucchero in gola. Rovesciavamo le teste e ingoiavamo quasi senza masticare, tra insulto e risate, urtati dai nuovi arrivati che si univano a quanti, dandosi di gomito, già si godevano la scena. Starace ingurgitava e piangeva. Forse piangere è troppo, pensai. Mentre mi svuotavo in gola l’ultima bustina, vidi che la ragazza dietro al bancone mi fissava triste, con gli occhi lucidi. Mi fece piacere. Sulla strada per l’ufficio comprammo al discount un pacco di bustine di zucchero per la segretaria. Lo scartammo in ascensore e non le dicemmo com’era andata davvero. Starace morì quella notte. Si era messo a letto presto dicendo alla compagna di non sentirsi bene, cadde in un sonno profondo, iniziò a russare, poi a rantolare, poi basta. Aveva arraffato più bustine di me, e questa mi parve l’unica spiegazione.

e.


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