Di Stefano Marullo
È stato detto che l’arte è fuga dal reale e grazie ad essa riusciamo a sopportarlo. Talvolta può esserne invece lo specchio fedele e la suo longa manus. Anche il mondo della musica non è immune dai tentacoli del Patriarcato. Un recente
documentario su Netflix dal titolo Women in Rock, per esempio, dedicato al rock “al femminile”, ha visto alcune delle intervistate, come Siouxie Sioux, The Slits o le Girlschool, rivendicare il loro diritto di sentirsi prima artisti che donne. Un discorso che fila perfettamente da un punto di vista meramente teorico. In fondo che cosa cambia, quanto a talento, chiamarsi Janis Joplin o Jim Morrison? Chissie Hynde o Lou Reed? Tina Turner o Joe Cocker? Alanis Morrissette o David Bowie? La differenza? Janis, Tina, Chrissie e Alanis in quanto donne hanno subito (per loro stessa ammissione) molestie e vera violenza sessuale, per il solo fatto di esserlo, pagando cara la loro popolarità, cosa che non sarà capitata su questo versante, molto probabilmente a Jim, Joe, Lou e David.
Proviamo però ora a restringere il nostro campo di indagine; esiste un genere musicale congeniale ad una contronarrazione di tipo femminista? Sì, non ha dubbi Vivien Goldman, autrice di Revenge of the She-Punks, tradotto in Italia da Vololibero con La vendetta delle punk con sottotitolo Una storia della musica femminista da Poly Styrene alla Pussy Riot. Goldman, che insegna alla New York University musica punk, afrobeat e regge, è stata giornalista e ha collaborato con testate storiche come “Sounds”, “Melody Maker” e “New Musical Express” ma anche musicista esponente del post punk. Il suo è un libro caleidoscopio che mescola interviste ed esperienze personali e allarga l’orizzonte delle eroine punk della prima ora inglesi, fino a toccare musiciste di terre lontane e per certi versi improbabili di cui diremo fra breve. Ad accomunare queste donne, la voglia di riscatto e affermazione artistica in un mondo, squisitamente misogino, dove spesso l’immagine vale più dei contenuti.
Un genere rivoluzionario come il rock è stato incapace di proporre modelli egalitari, dentro casa sua. Scrive Goldman senza mezze misure: “Negli anni Sessanta la funzione considerata più adatta alle donne era fare la groupie, una ragazza che trovava conferma di sé e della propria autostima nell’acchiappare e scoparsi le rockstar. E più queste rockstar erano famose, meglio era. Più che una consapevole scelta erotica, essere una groupie rappresentava un diversivo, un surrogato esistenziale che poteva dare l’illusione di essere una rockstar, visto che diventarlo veramente sarebbe stato impossibile. Anche se le groupies sembravano delle rockstar, e a volte erano perfino meglio di loro, era comunque un lavoro considerato inadatto per delle ragazze”.
L’avvento del punk segna qualcosa di inedito, un vero crash rispetto alla tradizione imperante. Per carità, c’erano state delle mosche bianche nel mondo del blues degli anni Venti e Trenta del secolo scorso ma si trattava per lo più di cantanti e anche i gruppi femminili erano solitamente solo corali (anche Janis Joplin o Grace Slick non suonavano uno strumento). Negli anni Settanta immaginare che una ragazza imbracciasse una chitarra o che magari fosse leader di una band composta di sole donne, era qualcosa di dirompente. Il punk sia come filosofia che musicalmente nasce per esprimere rabbia e frustrazione, per combattere convenzioni e salire sulle barricate; perfetto per le donne.
Nella prefazione di Paola De Angelis è interessante un passaggio estrapolato dal libro di Alessia Masini, Siamo nati da soli. Punk, Rock e politica in Italia e in Gran Bretagna 1977-1984 (Pacini editore, 2019) in cui si legge: “I corpi dei punk, come in parte l’aspetto degli artisti del glam rock, erano strumenti di sconfinamento di genere e della mascolinità tradizionale del rocker, mettevano in scena e rappresentavano il rifiuto iconoclasta degli stereotipi, che era un effetto della sedimentazione e un esito della lotta femminista degli anni precedenti”. La donna
leader di una punk rock band spesso ostenta un antitesi del bello. Il caso di Poly Styrene (al secolo Mary Joan Elliot Said, tra le protagonisti, peraltro, di un altro interessante documentario su Netflix, Punk in London) cantante e autrice dei testi del gruppo punk della primissima ora, X-Ray Spex, che Vivien Goldman saluta come antesignana delle Sheroes femmminili-femministe, è emblematico: di etnia mista, padre somalo e madre inglese, un po’ cicciotta e con l’apparecchio ai denti è l’antistar-system per eccellenza che vuole le donne ariane, altre e magre. Una donna visionaria che secondo la Goldman ha pagato con la sua vita l’essere pioniera: il suo medico non prese mai sul serio i suoi malesseri perché la considerava una donna instabile e quando le venne diagnosticato il cancro era troppo tardi.
Che la vita sia durissima per chiunque osi sfidare lo status quo lo hanno vissuto sulla loro pelle le Pragaash, un trio di punk rock di adolescenti del Kashmir, stato cuscinetto tra India e Pakistan a maggioranza musulmana, che erano addirittura arrivate in tv e avevano trovato una etichetta discografica, ma erano state zittite prima da una fatwa lanciata dal Gran Mutfì, un’autorità regionale musulmana che aveva emesso una sentenza di morte contro il gruppo accusato di violare la Sharia, e dopo da una serie di minacce di stupro in rete che convinsero loro a rinunciare alla carriera artistica.
Un altro gruppo tutto al femminile stroncato sul nascere, Las Vulpas, apparse sulla tv nazionale in fascia protetta a Madrid nel programma “Caja de ritmos” rivendicando la loro libertà sessuale con la canzone “Me gusta ser una zorra” (mi piace fare la troia), una sorta di paradosso alla maniera delle nostre Kandeggina Gang, quelle che ai concerti lanciavano sul pubblico assorbenti usati e che cantavano: “Violentami, violentami, piccolo, violentami, violentami sul metrò”. Con quella canzone le Las Vulpas provocarono un vero terremoto che determinò la chiusura del programma e una denuncia del procuratore generale per “pubblico scandalo” mentre il quotidiano ABC parlò di “inizio di una campagna di scristianizzazione della società e corruzione della gioventù”.
A differenza dei Sex Pistols , tutti maschi, che attraverso uno scandalo in tv in prima serata cavalcarono la popolarità, Las Vulpas non trovarono più case discografiche disposte a metterle sotto contratto, né luoghi dove suonare in quella Spagna bigotta dei primi anni Ottanta del secolo scorso, uscita da poco dal franchismo. Anche quelle che ce l’hanno fatta hanno pagato un duro scotto: le Go-go’s, il primo gruppo interamente femminile a raggiungere la vetta della classifica di Billboard [rivista settimanale statunitense che contiene sezioni dedicate alle classifiche basate sulle trasmissioni radio, vendite di dischi, streaming etc. considerata un vero cult negli USA, ndr] ed entrate nella Rock’n’Roll Hall of Fame, durante i loro concerti raccontano di essere state fatte oggetto di commenti ed insulti sessisti.
La rabbia sedimentata delle donne ha trovato negli anni Novanta libero sfogo nel movimento delle Riot Grrrl e forse nel loro gruppo più rappresentativo: le Bikini Kill che non potevano mancare in questo libro. Doveroso anche lo spazio ai collettivi politicizzati femministi come quello dei Crass, che hanno pubblicato un
album dal titolo fortemente evocativo, Penis envy, cantato solo dalle due voci femminili del gruppo, Eve Libertine e Joy De Vivre, impregnato di questioni che riguardano le donne, e quello delle Pussy Riot, protagoniste di azioni clamorose in chiave anti-Putin e per questo bersagliate sul piano giudiziario e sottoposte a restrizioni e detenzioni arbitrarie.
Meno famose e non meno eroine le colombiane Fértil Miseria, cresciute in un Paese in stato di guerra permanente che raccolgono cibo, articoli per l’igiene personali, denaro e abiti ai loro concerti per essere donati nelle scuole e nei quartieri dove esse stesse vivono. Od ancora le giapponesi Shonen Knife, delle Ramones al femminile che sprizzano gioia ed energia, in una società, come quella nipponica, fortemente puritana e sessista.
Un filo lega le donne presenti in questo libro, ancor più raro, nella penuria di donne che scrivono di musica parlando di altre donne, impreziosito da una splendida playlist alla fine di ogni capitolo: sono sheroes perché tutte accomunate dalle grandi battaglie che hanno dovuto vivere sul piano domestico, artistico, sociale, politico e personale. Ecco perché, come chiosa Vivien Goldman nelle ultime righe del libro, “la storia del punk e delle donne è necessariamente una storia di lotte”.