Rock against adulthood

Di Stefano Scrima

C’è una ragione per cui, pur avendo scoperto negli anni molta altra musica, resto (e sento che lo resterò per sempre) legato alla musica che ascoltavo da adolescente? Non semplicemente come un tenero ricordo: credo fermamente che quella sia la miglior musica possibile, e quindi irripetibile. Sto parlando di rock, ovviamente, e nel caso specifico dei Nirvana (anche se non solo), band che ho scoperto quando avevo 14 anni.

Dunque, è vero, psicologi e neurologi hanno in qualche modo da tempo svelato il mistero: è dai 12 ai 22 anni che formiamo definitivamente la nostra identità e la musica, che ha un impatto straordinario sul nostro cervello, ha un ruolo fondamentale in questo percorso. È del tutto comprensibile quindi che ogni volta che riascoltiamo quella musica, anche da adulti, ripenseremo a un periodo della nostra vita pieno di emozioni e “prime volte”. Non è che pensiamo: “bella questa canzone, mi ricordo che l’ascoltavo sempre”, no, quella canzone è ormai parte di noi, fa parte di chi siamo oggi. Rinnegarla sarebbe un insulto a noi stessi.

Tuttavia, questa spiegazione non basta. Non si può prescindere infatti dall’epoca in cui viviamo e dai cambiamenti socio-culturali in perenne divenire. L’importanza stessa della musica per la definizione identitaria è cambiata profondamente nel tempo. Prima della nascita in Occidente della popular music negli anni Cinquanta del Novecento il rapporto fra musica (di un particolare musicista) e ascoltatore era certamente meno diffusamente stretto. Ed è soprattutto con la nascita dell’industria musicale, che ha intercettato le esigenze della fascia giovanile della popolazione (di fatto creando la categoria, di mercato ma di conseguenza sociale, “giovani”), che la musica è entrata di prepotenza nella vita quotidiana degli adolescenti che stanno costruendo (liberamente) un significato alle loro vite.

Ebbene, ci sono almeno altri due motivi di ordine sociologico e psicologico per cui noi delle Generazioni X e Y (gli Y sono i Millennial) oggi ci sentiamo così visceralmente vicini alla musica della nostra adolescenza. Il primo riguarda il famoso passaggio alla vita adulta, che secondo il nostro costume culturale dovrebbe essere rappresentato dalla stabilizzazione esistenziale attraverso famiglia, casa e soprattutto lavoro. A un certo punto si smette di fare gli irresponsabili mantenuti dai genitori, si trova l’occupazione che possibilmente si manterrà per tutta la vita, un partner con cui avere figli e si compra una casa. Oggi, dopo le crisi economiche e di sistema che hanno caratterizzato la prima parte del XXI secolo, non è assolutamente più scontato che un giovane riesca a stabilizzarsi dopo il diploma o gli studi universitari. Ciò compromette inevitabilmente la vita affettiva e i progetti per il futuro. Conclusione: si diventa adulti, se lo si diventa, più tardi, se non molto più tardi, e si resta in una condizione di interregno che, se non fosse per l’età anagrafica che non mente, è sicuramente più vicino all’adolescenza che alla vita adulta. Quando il passaggio alla vita adulta è realmente compiuto – forse lo avrete notato nei vostri genitori o in qualche vostro amico cambiato da un giorno all’altro – si tende a distaccarsi dal passato per entrare in una nuova fase, fatta di differenti priorità e gusti, dettati anche dall’ambiente esterno e culturale. Per cui, per esempio, se sei un madre in carriera, nemmeno ti interesserà più ascoltare la musica che da ragazzina ti faceva impazzire (magari ci ripenserai di tanto in tanto con tenerezza come se stessi pensando a una persone che non esiste più), e quando capiterà andrai al concerto pseudo-colto di un cantautore consigliato dalle amiche. È un esempio un po’ estremo, ma sintetizza il “distacco”, la nuova vita, di cui parlo. Ad ogni modo, i tuoi idoli musicali dell’adolescenza – e cantanti e band della popular music esistono per diventare gli idoli in particolare degli adolescenti – dovrebbero essere “abbandonati” per sempre in una fase ormai superata. Non dico che gli adulti si mettano ad ascoltare musica classica – oggi meno che mai – ma propendono per ascolti considerati più adatti alla loro fascia d’età se non addirittura per non ascoltare proprio niente se non quello che passa alla radio mentre stanno andando al lavoro. Il filosofo Max Scheler sosteneva che il processo di invecchiamento è compiuto in modo soddisfacente solo quando si rinuncia liberamente ai valori specifici dell’età precedente per abbracciarne di nuovi, più conformi alla condizione attuale.

Ma non è così semplice come sembra. Questa condizione – e questo è il secondo motivo – ha comportato in queste generazioni una sorta di rifiuto della stessa età adulta. In breve: “se diventare adulti deve essere così difficile, se non c’è spazio per noi*, se le promesse – se ti impegni puoi diventare ciò che vuoi – di cui il mondo ci ha sempre ingozzato non sono vere, tanto meglio rimanere giovani per sempre”. Si tratta di una meta-ribellione, conscia o inconscia che sia. Se l’età dell’adolescenza è l’età della ribellione per eccellenza, io decido di ribellarmi alla vita adulta rimanendo adolescente, pur dovendo inevitabilmente sopportare incombenze da adulto: non avere una stabilità non significa ovviamente non lavorare, pagare l’affitto o il mutuo. Nella dimensione consocia di questa ribellione vi è anche la consapevolezza che la vita adulta così come è intesa (casa, lavoro, famiglia) sia meglio perderla che trovarla, ovvero che non sia affatto sinonimo di realizzazione esistenziale – e qui gli approfondimenti filosofici si sprecherebbero.

Lo stesso fenomeno della “retromania” (Reynolds), la nostalgia del passato, non può essere spiegato solo dal fatto che non si riesca più (o così pare) a creare movimenti culturali o forme d’arte realmente originali e influenti come quelle passate, ma anche dal sentimento diffuso di delusione verso il futuro. Stiamo vivendo – perlomeno è quello che proviamo – nell’epoca della “fine della storia” (Fukuyama).

È dunque questa congiunzione di fattori – potenza della popular music nei giovani, mancanza del passaggio all’età adulta e delusione-ribellione nei confronti della stessa (nella quale rivediamo l’eterno compimento di un sistema marcio) – che fa sì che io, Millennial, sia ancora visceralmente appassionato di una band finita 30 anni fa, il cui leader morì tragicamente anch’egli senza mai essere (probabilmente) mai entrato nell’età adulta.

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* Su questo argomento ho scritto un libro che non ha letto nessuno: Ghost Generation, Rogas 2021.


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