Di Duilio Scalici
Non nego di aver orchestrato ogni possibile incastro, pur di ritagliarmi un pomeriggio libero che coincidesse con l’uscita di Queer, il nuovo atteso film del mio conterraneo Luca Guadagnino, ispirato all’omonimo e controverso romanzo di William Burroughs. Il trailer, colmo di immagini potenti e suggestioni visive, mi aveva già promesso qualcosa di più di un semplice adattamento: una visione, forse.
Per mia fortuna, la pellicola era in programmazione anche in uno dei miei cinema del cuore, il Tiffany, precisamente nella Sala 2 – la più piccola, la più intima. Quasi un rifugio. Io e Ninfa arriviamo per la proiezione delle 16:00. In sala, contiamo appena sei persone. Ma non è una sorpresa: i pomeriggi silenziosi sono lo sfondo perfetto per film come questo.
Il film si apre con dei titoli iniziali splendidi, accompagnati dalla bellissima All Apologies di Sinéad O’Connor. Fin da subito si avverte che non si tratta di una semplice trasposizione: Queer va osservato scindendolo dal romanzo. Perché un film non sarà mai un libro, e viceversa. Sono linguaggi diversi, e vanno rispettati per ciò che sono.
Fatta questa doverosa premessa, posso dire che la visione è scivolata via piacevolmente. La fotografia è affascinante, quasi come se il film fosse girato attraverso l’obiettivo sognante di una vecchia Lomo: colori saturi, sfocature studiate, inquadrature che sembrano quadri rubati alla memoria. Alcune immagini sono vere e proprie epifanie visive, capaci di condensare emozioni e significati profondi.
Il cuore del film batte sicuramente nella ricerca ossessiva e silenziosa del protagonista: il desiderio di controllare, forse telepaticamente, ciò che non riesce a dominare dentro di sé. Quel bisogno di disincarnarsi, di astrarsi dal proprio corpo per compiere gesti che nella realtà non ha il coraggio di affrontare – come accarezzare l’uomo che ama.
Guadagnino intreccia elementi di realismo magico con una delicatezza onirica, dando al film un respiro sospeso tra sogno e allucinazione. È forse questa la sua vera forza. In alcuni momenti sembra tornare il Guadagnino di Chiamami col tuo nome – film che porto nel cuore – ma con venature cupe, reminiscenze di Suspiria o Bones and All.
Un miscuglio affascinante che, però, a mio avviso, non riesce a compiersi del tutto. C’è come un vuoto narrativo, qualcosa che non viene esplorato fino in fondo. Forse perché, alla base di tutto, c’è una storia semplice: un amore non del tutto corrisposto. Una ferita aperta.
Daniel Craig, in un ruolo rischioso, non mi ha convinto pienamente. La sua interpretazione pare trattenuta, distante.
Durante la proiezione perdiamo una spettatrice: una signora, seduta accanto a Ninfa, si alza e se ne va a metà film. Qualcuno, a fine proiezione, discute dell’abilità registica di Guadagnino classificandolo come sopravvalutato. Io, invece, in silenzio, mi lascio attraversare da quella scena finale.
Non è un capolavoro. Non è un film perfetto. Ma qualcosa, nell’ultima immagine, mi ha toccato o, meglio… mi ha ispirato. E dopotutto, non è forse proprio questo lo scopo ultimo dell’arte?

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Foto di copertina di Duilio Scalici