Politeismo sanremese

Ogni anno, con l’avvicinarsi del Festival di Sanremo, i suoi denigratori, per giustificare la loro idiosincrasia nei confronti del fenomeno nazional-popolare italiano per eccellenza, tirano fuori le parole del cinico Ennio Flaiano, che nel suo Diario degli errori scrive:

Ho visto alla televisione una delle serate di Sanremo.
Ero a cena in casa di amici e non ho potuto sottrarmi. Questi amici intendevano vedere la trasmissione per ragioni di studio, essendo psicologhi e interessati ai fenomeni della cultura di massa.
Alla fine mi sono accorto che a loro quella roba piaceva.
Il fatto che a cantare fossero dei giovani, serviva a garantirli che la loro approvazione rientrava nell’aspetto giovanile del fenomeno. La verità è che a me lo spettacolo, non so più se ridicolo o penoso, di quella gente che urla canzoni molto stupide e quasi tutte uguali, lo spettacolo mi è parso di vecchi.
Comunque, se la gioventù è questa, tenetevela.
Non ho mai visto niente di più anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso, lercio e interessato. Nessuna idea, nelle parole e nei motivi. Nessuna idea nelle interpretazioni. E alcune mi venivano segnalate come particolarmente buone.

[…]

So bene che è inutile lamentarsi sui risultati di una politica produzione-consumo. Interessi economici molto forti possono modificare non soltanto il gusto, ma la biologia di un popolo che cade in questa impasse.
La trasmissione era ascoltata, dicono, da 22 milioni di telespettatori, che è a dire tutta l’Italia – il paese dei mandolini.

Razionalmente, anche oggi, Flaiano avrebbe pienamente ragione. Ma come dice Pascal “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. E infatti per uno come me che vede i quarant’anni a un passo questa gioventù vecchia, negli anni Venti del Duemila come negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, può andare a farsi benedire. Ma non durante il Festival di Sanremo. In quei cinque giorni di febbraio l’Italia si trasforma in un grande altare dedicato alle nuove divinità effimere. I cantanti in gara, con le loro voci, le loro storie strappalacrime e i loro look studiati per alzare sempre di più l’asticella della coolness, ascendono al rango di divinità contemporanee, dirette discendenti di quelle greche e romane. Sanremo diventa così il nostro Olimpo annuale, un pantheon di figure che ammiriamo, critichiamo e veneriamo a seconda dei nostri umori e delle tendenze del momento (e questo spiega anche il successo del FantaSanremo1).

Questi idoli moderni non assomigliano affatto al Dio unico, perfetto e distante del monoteismo, ma sono appunto molto più simili agli antichi dèi pagani: potenti, ma fallibili; ammirati, ma spesso messi in discussione; soggetti alle passioni, alle debolezze e agli eccessi, proprio come noi comuni mortali. In fondo, il politeismo sanremese risponde alla stessa esigenza che muoveva gli antichi greci: trovare figure di riferimento in cui riconoscersi, modelli di ispirazione che, al tempo stesso, ci rassicurano con le loro fragilità.

C’è chi si sente un po’ come Achille (semidio) quando ascolta le struggenti ballate d’amore, chi trova in un cantante irriverente il proprio Dioniso interiore, sempre pronto a ribellarsi alle trite convenzioni. E poi ci sono le Afrodite contemporanee, le dee della bellezza e della sensualità, che dominano il palco con una grazia sconosciuta che induce lo spettatore alla catarsi. Ogni concorrente incarna un archetipo, una storia che può essere interpretata e vissuta in mille modi diversi.

Noi, pubblico devoto e a tratti spietato, oscilliamo tra l’adorazione cieca e la critica feroce. Proprio come gli antichi, eleviamo i nostri idoli per poi abbatterli alla prima nota stonata, alla caduta di stile, al gossip impietoso. E lo possiamo fare perché proprio come nel mito, lo abbiamo detto, gli dèi sanremesi non sono immuni alle debolezze umane: c’è chi inciampa nelle proprie insicurezze, chi si lascia trasportare dall’ego smisurato, chi cade e si rialza, proprio come un Ulisse (non un dio ma comunque un uomo leggendario) della musica leggera. Ci fanno sentire al sicuro. Ed è in questo eterno gioco tra l’aspirazione alla grandezza e la consapevolezza del limite che si consuma il rito annuale di Sanremo, il nostro personalissimo politeismo musicale – e con musicale intendiamo qualcosa di molto più profondo rispetto al senso comune: la musica, come direbbe Nietzsche, è infatti l’espressione più profonda della volontà di vivere e dell’irrazionalità dell’esistenza; attraverso di essa l’uomo può oltrepassare i limiti del razionale e riconciliarsi con l’essenza dionisiaca della vita.

Alla fine, anche noi spettatori spegniamo la tv dopo la finale del sabato con la sensazione di aver partecipato a qualcosa di più grande di noi. Sanremo è il nostro mito collettivo, un rito catartico che ci permette di sognare, criticare e, in un certo senso, credere.

Dopotutto, chi ha bisogno di un solo Dio perfetto, quando possiamo avere un’intera schiera di divinità canterine, così simili – nel bene e nel male – a noi stessi?

  1. Chi volesse partecipare all’agguerritissima Lega Arghiatica è libero di farlo, a suo rischio e pericolo. ↩︎

s.


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