Holydays Festival 2024: THE DIARY

Di Andrea Belushi

DAY 1

Scopoli è un villaggio che potrebbe tranquillamente prestarsi a svariate robe tra cui una bislacca rievocazione de I Promessi Sposi, una partita 11 contro 11 cacciatori VS pescatori, del sano boar watching by night e quindi l’Holydays Festival. Arrivo lì intorno alle 18 con una panda 4×4 verde marino, tracanno un’ipa e sbaciucchio tutti i santi che han reso possibile sto miracolo di festival.

EVERMORE

Gli Evermore danno inizio alle danze. Un trio di anime dannate appena ventenni che suonano del grunge senza troppe seghe. A tratti sembrano i Silverchair di Frogstomp e tra un pezzo e l’altro fanno il cazzo che vogliono con gli strumenti facendoli ululare di catarro zozzo.

A/LPACA

Gli A/LPACA sono dei fuoriclasse. In 45 minuti sono riusciti a non farmi bere, concentrarmi sulla fica e l’unica volta che ho preso il cellulare in mano è stato per scattare loro una foto. Scaletta perfetta, suoni devastanti e scrittura magistrale. 

A NICE NOISE

Hanno un nome di merda e lady Any Other indossa una maglietta nera che a dir poco stona con una gran bella gonna ma ogni volta che apre bocca mi vengono in mente 9000 canzoni che vorrei scrivere per fargliele cantare. La cover di Sufjan Stevens ha fatto ringiovanire di almeno un secolo tutti gli alberi intorno al palco. 

BRAD STANK

Manchester è l’unica città inglese destinata a sopravvivere ad ogni tipo di cataclisma. Chi nasce lì prima morde e poi chiede scusa con ghigno sbarazzino e goliardico. Il cantante dei Brad Stank è il primo nome sul taccuino di Dio per cantare l’inno del giudizio universale.

GENTILESKY

Li ho incontrati intorno alle 18 lungo la stradina che porta al festival e quindi caricati tutti e 4 dentro la panda 4×4 verde marino da cacciatore redneck. Quando la Sardegna incontra la Turchia il Mediterraneo diventa potabile. Yaprak è una matrona ottomana che ringrazi anche se ti impala per poi divorarti le viscere. 

DAY 2

Mi sveglio intorno alle 11.30, gli A/LPACA se ne sono già andati da Uppello e mi han lasciato in dono la loro maglia size L. Immensa gratitudine. Han sgonfiato il materasso, piegato le lenzuola e rifatto i letti; mi chiedo dove sia finito il rock’n’roll. Johnny Amore si presenta a Uppello. Il cielo è un gospel di Natale in un ospizio, le analisi del sangue di un carcerato dell’Arkansas il giorno prima della sedia elettrica, tagliatelle al piombo al sugo di leptospirosi. Andiamo a Scopoli carichi come l’olio spremuto a freddo. Piove, ma rispetto alla passata edizione è più una guerra anglo-zanzibariana. Mangiamo una roba e poco prima delle 20 siamo pronti per assistere al live di

PUFULETI

Un consapevole razzismo ignorante mi ha fatto desiderare di parcheggiarli in un gulag in cui si modella del ghiaccio con le nuove ed etiche cannucce di carta dell’estathè stile “fine pena mai”. C’è un girone infernale in cui Pufuleti mi obbliga a fare saponette coi miei buoni propositi d’infanzia. 

EL KHAT

El Khat è conosciuta anche come “la droga della preghiera e dell’amicizia”. Di solito si mastica ma può anche essere fumata. Vengono dalla perfida Tel Aviv ma Eyal El Wahab è figlio della diaspora ebraica yemenita. Ipnotici e gentili come il tallone calloso della madre di tutte le dune. Disposti orizzontalmente come il king-sofa di un’antica fumeria d’oppio, sono senza dubbio una delle migliori band dell’Holydays. 

DAY 3

Ore 11, in bocca ho la fogna-madre dello Stige. Apro gli occhi a stento. Il mio primo pensiero: “mettere in una busta gli abiti più assurdi che posseggo. C’è il torneo di volleyball dell’Holydays“. Incurante dello stato di disidratazione in cui verso, spalanco armadi, cassetti, scatole e scrigni. Riempio la busta dell’Ikea con un kilt scozzese originale, dei pantaloni oro-zebrati, la camiceta del Burnley, pantaloni floreali e la maglia del Revolver di Taipei. Decido di indossare i pantaloni floreali, una maglia blu a pois, una collana fatta a mano dalla cara Hilary Bockham e gli occhiali da sole di mio mini pony. Johnny Amore si presenta alle 14.30 spompato come lo spirito santo dentro il corpo di un cigno posseduto da Zeus. Arriviamo all’Holydays poco dopo le 15 e per il torneo necessitiamo di un terzo elemento. Si propone un certo Alessandro; fiorentino, gentile ed incline al fomento. Bisogna scegliere il nome della squadra. Decidiamo di chiamarci “i Postumi”.

QUARTI DI FINALE: 

Come avversari becchiamo dei diciottenni dotati di un fisico che non abbiamo mai avuto; Scopoli è la spiaggia di un’isola nelle Filippine, loro sono dei giovani surfisti a petto nudo appena usciti dall’acqua, brillano di salsedine oceanica e guardano noi vecchi di merda bere degli smoothie al mango per combattere il caldo. Come cadaveri unti nel Gange entriamo in campo col solo ed unico scopo di venire eliminati poiché dignitosi come uno stercorario con una bussola nel culo. Vinciamo 2 a 0 scaraventandoli nella fossa delle Marianne consacrata a Cthulhu. 

SEMIFINALE:

Galvanizzati dall’inaspettata quanto poderosa vittoria ai quarti entriamo in campo con lo stesso spirito di un’erezione mattutina dopo una sbronza-alfa. Giochiamo contro una squadra che si chiama Jerry. Vinciamo il primo set, perdiamo il secondo. A metà del terzo set siamo 7-1 per noi ma l’angolo del terreno di gioco si stacca. Perdiamo tempo per metterlo a posto. Ci rilassiamo, la magia va a farsi fottere. Perdiamo 15-12. 

NINO GVILIA

Trio uscito da un cortometraggio universitario di Guillermo del Toro a tema mormoni. Inizio timido da rugiada acida sui peli pubici. Sbuffo, mastico il ghiaccio del drink e manifesto a tutti la mia insoddisfazione da patetico adulto ADHD, ma quando imbraccia la chitarra acustica e inizia a cantare mi trasformo nel suo zerbino di marzapane. Nello stomaco una pangea di brividi, un garbato carnevale di placche tettoniche, una cometa che distratta guarda i detriti disperdersi nel nulla e piange. I Nino Gvilia sono un miracolo; mi guardo intorno e la loro musica rende tutti più belli, nudi e beati.

SANAM

Ho sempre avuto un debole per i Fenici. Erodoto afferma che furono i primi a circumnavigare il continente Africano rientrando nel Mediterraneo attraverso le Colonne d’Ercole. Il live dei Sanam è stato un lungo e misterioso viaggio in mare aperto; ho provato la sbronza malinconica della ciurma, il terrore delle tempeste, il canto delle sirene che di notte scacciano via le nuvole per rivelare la volta celeste ai navigatori stanchi. Imprevedibili come un puerile ammutinamento iniziato per gioco e finito in sfavillante eroismo. I Sanam hanno in forze Pascal e Marwan con i quali ho avuto il piacere e l’onore di condividere lo stesso palco 8 anni fa in Calabria. In questo momento la loro casa è martoriata dalle sudice mani di un merdoso Stato-canaglia. 

RICHARD DAWSON

Il professore. Esordisce come solo certe anime pure sanno fare: canta col solo ausilio della voce qualcosa che non oso descrivere ma son sicuro che per tutti i 7 minuti di questa “preghiera” Shane McGowan appoggiava la testa sulla grossa schiena di Dawson sussurrando carezze al cuore. Mi sento a casa. Ripercorro l’evoluzione di ogni sua canzone nonostante venga continuamente spiazzato da soluzioni melodiche pure. Disarmanti. Richard incarna l’idea dell’Holydays e ad un certo punto ringrazia con fanciullesca nobiltà tutti i Santi che han reso possibile anche questa edizione. Il pubblico è follemente innamorato di questo professore bambino che nel 2005 ha esordito con un disco intitolato Sings songs and play guitar. Se ne va come la ragazza che siede sul vagone del treno sul binario opposto al tuo lasciandoti innamorato per sempre. Torniamo al palco B per tracannare il drink della staffa. La montagna sprigiona una materna brezza che tonifica la sbronza rendendola quasi consapevole. Ce ne andiamo in punta di piedi, col cuore stracolmo di gratitudine, abbozzati e con lo sguardo ebete degno di una telenovela argentina anni ’80. Felici, cazzo, sì.


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