Filosofia di The Office

Di Stefano Scrima

Il postfordismo non ha soltanto introdotto il concetto, oggi egemone, di flessibilità del lavoro, ma con esso ha rivoluzionato lo stesso ambiente di lavoro per mantenere, anzi aumentare, la sua performance. Togliendo ai lavoratori la certezza della durata, compromettendo così la serenità mentale, la possibilità di programmare il futuro costringendo al contempo a concentrare tutte le energie nel lavoro (nel mantenere un lavoro o trovarne un altro), è stato inevitabile assistere alla svolta friendly del capo, intento a creare un ambiente di lavoro “familiare” per alleggerire l’incertezza e non interferire con la produttività. Lavoratori infelici o depressi di certo non saranno produttivi. Tuttavia, la gerarchia non viene abolita, solo ricoperta di sorrisi, pacche sulle spalle, riunioni superflue e corsi di formazione in cui si impara ad essere empatici. Gli stipendi non cambiano, regole, ordini e obbedienza nemmeno. La svolta amichevole del capo è stata necessaria per mantenere un equilibrio all’interno degli uffici: alla stabilità subentra la (presunta) amicizia, espediente che cerca di mitigare l’insoddisfazione diffusa nei confronti del lavoro – che di per sé non è quasi mai piacevole.

“Il mio lavoro consiste nel parlare con i clienti, al telefono riguardo… la quantità e il tipo di carta per fotocopie. Sapete se possiamo rifornirli, se loro sono in grado di… di pagarla e… io, mi annoio soltanto a parlarne” confessa Jim Halpert, uno dei personaggi The Office, serie tv statunitense (remake dell’omonima serie britannica) che pare una sorta di video-trattato di sociologia del lavoro, oltre a essere esilarante – anche perché sono le stesse condizioni di lavoro a esserlo. Michael Scott, dirigente della filiale di Scranton (Pennsilvanya) della ditta Dunder Mifflin che si occupa della vendita di carta, è un uomo (ingiustificatamente) pieno di sé che crede che il suo umorismo (politicamente scorretto) e la sua affabilità abbiano creato un ambiente di lavoro ideale nel quale i suoi dipendenti possano sentirsi come in una famiglia. A tal fine non mancano i momenti di team building, tra feste di compleanno, partire di basket coi magazzinieri e crociere sul lago in gennaio (perché costa meno).

L’idea geniale degli ideatori Greg Daniels e dei soggettisti Ricky Gervais e Stephen Merchant, è stata quella di proporre una fiction-documentario (mockumentary), sebbene la parte documentaristica nel quale i personaggi si “confessano” o commentano le vicende, non pesi affatto sullo sviluppo della storia: ci sono le telecamere, i personaggi lo sanno e spesso ne fanno anche cenno (in realtà è soprattutto il narcisista Michael a farlo) ma è come se non ci fossero. Tutto avviene nella più pura spontaneità, ma l’artificio delle telecamere sempre accese, come in un Truman Show, dà la sensazione allo spettatore di assistere a comportamenti reali e non di guardare una fiction. Effettivamente, seppur iperbolizzate, quelle messe in scena sono le dinamiche che realmente caratterizzano il mondo degli uffici contemporanei, negli Stati Uniti ma anche nel resto dell’Occidente che a essi si ispirano.

Nonostante i goffi sforzi di Michael, nessuno dei dipendenti della Dunder Mifflin, eccetto il bizzarro Dwight Schrute, aspirante capo, lo trova divertente e ama il proprio lavoro. Se da un lato la serie mostra le storture del postfordismo – Michael è costretto a licenziare uno dei suoi dipendenti per far quadrare i conti della ditta; presenta il nuovo arrivato Ryan come il “nuovo precario”; fa di tutto per diventare amico dei suoi dipendenti ma non riesce in alcun modo a essere umile, aggrappandosi costantemente al suo titolo di manager – dall’altro mostra anche quelle del fordismo classico, invero, nonostante l’avvento del postfordismo, mai passato di moda. Del resto, sebbene la mannaia del ridimensionamento sia perennemente presente come una spada di Damocle, i dipendenti della Dunder Mifflin hanno il posto fisso e con esso vivono la cara vecchia alienazione di cui parlava Marx. Vendere la carta dell’azienda per otto ore al giorno, cinque giorni a settimana per una vita non dev’essere qualcosa di propriamente gratificante.

Il problema, dunque, dalla trasformazione del mondo del lavoro si sposta al lavoro stesso. Che senso ha rimanere in ufficio tutto il giorno quando le stesse mansioni si potrebbero svolgere in un’ora (è Jim stesso, uno dei personaggi più consapevoli, ad ammettere che il suo lavoro potrebbe essere fatto in una percentuale di tempo largamente inferiore)? E infatti buona parte dei dipendenti spesso fa altro, come giocare al computer o chiacchierare. Non sarebbe nemmeno da rigettare l’idea che il lavoro di alcuni non sia affatto utile (per esempio non si sa esattamente che lavoro faccia Creed), un cosiddetto bullshit job, come l’ha chiamato Graeber, ma figlio dell’ipertrofia burocratica che necessita di sempre nuove figure che stiano dietro al meta-lavoro e soprattutto dell’ideologia lavorista che vede nel lavoro l’unica attività degna per l’essere umano, anche se poi, appunto, non porta vantaggi (se non al lavoratore stesso) e la disoccupazione non diminuisce. L’esercito di riserva, come lo chiamava Marx, dei disoccupati che farebbero di tutto per prendere il posto di chi lavora è necessario per mantenere appetibile il lavoro (pagandolo il minimo). D’altro canto è difficile pensare che una ditta privata sul libero mercato, che come obiettivo primario ha evidentemente quello della produttività e del profitto, mantenga lavoratori realmente inutili. Più facile che la loro utilità rientri in qualche logica interna dell’azienda o che l’azienda stessa abbia sbagliato nella valutazione del suo fabbisogno.

Ad ogni modo, nonostante nulla sia cambiato e nulla cambierà (perlomeno a breve termine) ci sarebbe quasi da ringraziare il capitalismo per averci dato, in tutti i sensi, una serie di così alto livello.


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