Filosofia di Taylor Swift

Di Alessandro Alfieri

Se sosteniamo che comprendere il successo di Taylor Swift non è facile, non si tratta dalla spocchiosa e boomeristica constatazione del degrado dell’ascolto musicale generalizzato, magari causato dal web o dalle piattaforme digitali, o dal collasso globale del buon gusto, o dall’imminente fine del mondo causata dall’idiozia virale. La difficoltà di comprendere Taylor Swift fa tutt’uno con i numeri impressionanti della sua carriera, che non la rendono solo una popstar tra le altre, ma uno dei riferimenti culturali decisivi della contemporaneità. Da un lato si tratta di un fenomeno utilissimo a comprendere la situazione geopolitica e la posizione dello spirito americano al suo interno, dall’altro come ogni fenomeno della cultura di massa di successo Taylor Swift non si limita a trasfigurare un mondo che trova già pronto da rappresentare, ma contribuisce lei stessa a definire e creare quel mondo (da questo punto di vista, sono utili gli argomenti di natura finanziaria incentrati sulla capacità dell’artista di influenzare l’economia e l’efficacia del suo impero economico).

Conciliare l’inconciliabile

Come tutte la grandi popstar della storia, Taylor Swift riesce a coniugare da una prospettiva performativa quello che l’argomentazione teorica o il calcolo logico non potrebbero mai sostenere. Il paradosso alimenta il successo, dal momento che la strategia di seduzione sta proprio nell’inconciliabilità: ciò che seduce da un lato si trova al di là della barricata e viceversa. Ripercorrendo la produzione videomusicale di Michael Jackson, appare evidente come il profilo da bravo ragazzo ammiccante nei confronti della classe medio-alta (compresa quella afroamericana, emergente negli anni ’80) si alterni continuamente all’interpretazione di personaggi mostruosi, criminali, gangster, capi gang. In Madonna, l’alternarsi perpetuo della Lolita e della femme fatale, in Lady Gaga la vittima che diventa carnefice, il weird che diventa alieno. Questa ambiguità è rintracciabile nel fenomeno originario dei generi pop e rock, ovvero Elvis Presley: il bianco che cantava come un nero, il bacino elettrificato e il corpo sinuoso appartenenti al profilo idealizzato del self made man, la testa calda e il lavoratore…

Conciliare ciò che per definizione non può essere conciliato assume anche in Taylor Swift una dimensione politica: il candore e la lucentezza, così come la provenienza dal genere country, fanno appello al mito (falso mito, ma i miti sono sempre falsi, spesso ce lo dimentichiamo…) della purezza della whiteness americana. Taylor Swift piace a molti elettori repubblicani e a molti trumpiani per questo, allo stesso tempo però spesso l’artista si è esposta a favore dei diritti civili e soprattutto contro quel misoginismo incel che alimenta hating e flaming e che ha portato acqua al mulino della destra più radicale. In questo modo ha fatto breccia anche nel progressismo liberal accomunandola a molte colleghe ben più allineate al pensiero dem.

Le origini nella purezza

Un classico della cultura di massa americana è sempre stato quello di fare appello a dei miti originari in grado di stabilire l’identità culturale della nazione. Una nazione con una storia molto limitata temporalmente e che ha saputo in pochi secoli costruire i propri miti di riferimento, legati al proprio territorio. In questo, Taylor Swift tenta un estremo rimbalzo rispetto al fenomeno dilagante dello smembramento dell’e pluribus unum: molti analisti hanno confermato come il proverbiale spirito unitario americano sia in una fase di fortissima crisi, in questo Swift senza didascalismi – che otterrebbero un effetto contrario – riesce a ricompattare l’America. E questo perché le origini a cui si appella Taylor Swift non sono quelle esotiche del tribalismo delle sue colleghe legate all’immaginario della black music. L’originarietà primigenia non è la natura (per quanto anche ad essa si fa appello nel The Eras Tour, ma per poco), ma è qualcosa che a sua volta è già “originato”: è il country nella sua rivisitazione pop debitrice a Shania Twain tra gli altri (a tal proposito la recente “svolta country” di Beyoncé diventa un elemento di estremo interesse). Il country è il genere musicale che si pone come pura emanazione dello spirito americano perché come ha messo in luce Richard Shusterman si è sempre rivolto a quelle classi lavoratrici meno allenate alle inibizioni dovute al pensiero critico: con poco tempo a disposizione, si possiede anche meno energia per le elucubrazioni filosofico-teoretiche, che arrivano spesso a quegli eccessi wok antistoricisti che chiudono il cerchio, in una sorta di coincidenza degli opposti. Taylor Swift sta in mezzo tra gli opposti: esistono le origini, esiste l’autenticità, esiste l’opportunità di conciliazione che non è riscatto ma struggimento enfatizzato. Per questo in Taylor Swift, come per molti altri prodotti, c’è più guilty pleasure da parte della classe intellettuale dai gusti sofisticati che hate branding (come per alcuni eccessi trap).

Il requiem dello show

L’argomento più inflazionato quando si intende criticare Taylor Swift è l’assenza della dimensione propriamente musicale: sappiamo tutti chi è Taylor Swift, nessuno conosce le canzoni. La musica passerebbe in secondo piano rispetto all’apparato scenografico e teatrale dello show. Argomento non particolarmente utile, perché riguarda da sempre la musica pop e rock: in quanto configurazione di senso performativa, quella di Taylor Swift riguarda il coordinamento di tutta una serie di componenti estetiche, di cui la dimensione musicale è solo una parte e probabilmente quella meno decisiva. Quella di Taylor Swift è la più riuscita trasfigurazione pop dell’ideale wagneriano dell’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk): come afferma Friedrich Kittler, la nozione di “sound” in quanto medium esperienziale esula dalla dimensione meramente auditiva e perciò musicale; è la performance a generare l’effetto, perché l’obiettivo è quello di creare la divinità attraverso lo spettacolo. Una divinità che nell’epoca dei social non può tacere ed essere assolutamente altrove dal mio orizzonte sensoriale: quando Taylor Swift canta davanti a decine di migliaia di persone lo fa in maniera talmente disinvolta, che sembra si stia rivolgendo a un pubblico di poche decine, esattamente come faceva Freddie Mercury. Lo sguardo e la confidenzialità dei gesti e delle parole sembrano appellarsi ai singoli, come se la regia dello spettacolo già pensasse ai reel e alle stories che verranno pubblicate. Il sound pop come medium religioso comprende oggi anche questo. Ma non è tutto: nella dimensione ritualistica dello show e nel suo impatto multisensoriale, la musica è solo un pretesto o una componente tra le tante. Il The Eras Tour non è un tour attraverso il quale l’artista pop presenta il suo ultimo disco, ma una performance che si avvicina decisamente al teatro e all’opera lirica. Una sorta di autoconsacrazione, che ha qualcosa di quella “retroguardia” che ci riporta al discorso dell’origine. La retroguardia è la santa ingenuità della speranza, di contro al dark pop di Billie Eilish. Il tour in questione si riferisce a ben 17 anni di musica e intende ripercorrere le ere della crescita artistica e psicologica dell’artista restituendo questo percorso intimo a un pubblico planetario. Questo significa che Taylor Swift non è un fenomeno particolarmente recente: classe 1989, lo strabiliante The Eras Tour fin dal titolo tradisce una longevità anche ostentata. Di solito, sono artisti sulla scena da almeno tre o quattro decenni a realizzare tour autocelebrativi che ricostruiscano la propria vicenda, così da attrarre la fanbase classica cresciuta e invecchiata con loro, in tono pienamente retromaniaco. Che sia Taylor Swift ad adottare questa prospettiva – così come il fatto che abbia reinciso i dischi della primissima fase della sua carriera – la dice lunga sul nostro presente, un presente talmente disgraziato e sciagurato che alimenta nostalgia e retromania anche lì dove sembra proporre nuovi eroi e nuovi dèi. Taylor Swift non dice “io sono il futuro”, ma davanti a un pubblico di adolescenti e preadolescenti preferisce esprimere con la sua presenza “io sono il passato” e questo perché il presente americano è oggi innanzitutto il suo passato. Gli Stati Uniti non hanno infatti futuro, ma solo la glorificazione del passato, fino al punto che la sua stessa paladina decide contorcersi trionfalmente su se stessa. La performance di Taylor Swift è di retroguardia in questo senso: è il requiem estremo dell’imperialismo culturale americano, conseguente al tramonto dell’imperialismo geopolitico. È commovente nelle sue esibizioni plateali perché, esattamente come in Wagner, è decadenza, è simbolo di una fine che sta arrivando rapidamente. E questa fine, piuttosto che venire espressa visivamente e artisticamente trasfigurandola nello stile interpretativo come in Billie Eilish, viene arginata con una forma di brillante e tragica speranza. Una speranza fatta di buoni sentimenti e di riconoscimento del passato, ma non di effettiva progettualità o di volontà di riscatto: una speranza che chiede solo di essere partecipata, senza autentico contenuto.


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