Filosketch #3

di Sonia Cosco

Cronologicamente verrebbe prima. Però Anassimandro è più di un apostrofo rosa tra Talete e Anassimene. È il filosofo che fa lo scienziato, lo scienziato che fa la prima grande rivoluzione concettuale, il geografo che disegna la prima carta del mondo conosciuto. Insomma, un fuoriclasse. Acqua e aria sono sorelle, l’ápeiron di Anassimandro è il gemello diverso.

Discepolo di Talete, nato intorno alla fine del VII secolo a.C. e morto agli inizi della seconda metà del VI secolo a.C., compone un trattato dal titolo (indovinate?) Sulla natura, considerato il primo testo filosofico della tradizione occidentale. Con uno scatto di immaginazione teatrale, immagino una scena. È il 494 a.C. Anassimene e Anassimandro dovrebbero essere morti da un pezzo, ma nella mia ricostruzione sono ancora qui a osservare da lontano la loro città, mentre viene distrutta dai fuochi nemici in quella che sarà nota come la presa di Mileto. Un’incursione fuori programma e fuori tempo massimo, d’altra parte questo non è un manuale di scuola e possono avvenire incontri di fantastoria. “Lo vedi il fuoco, Anassimene?” dice Anassimandro nel mio copione teatrale. “Lo vedi laggiù? Ecco, mi sai dire come potrebbe avere ragione il venerando Talete a dire che tutto ha origine dall’acqua? Il fuoco come può originarsi dall’acqua, visto che lo spegne?”.

Il principio primo, l’arché deve avere una natura infinita, indefinita.

A questo pensa Anassimandro che, anche se ormai in là con gli anni, mantiene quell’atteggiamento fiero, tipico dell’aristocrazia terriera. Quell’orgoglio che, ci racconta Diogene Laerzio, viene ferito da alcuni bambini che lo sentono cantare e lo deridono per le sue stonature. “Dunque per amore dei fanciulli devo migliorare il mio canto” borbotterà fra sé e sé. Messo in crisi da un paio di ragazzini per una voce non proprio da usignolo, ha altro però a cui pensare. A ciascuno il suo e se l’aedo ha il talento del canto, lui ha quello della ragione, allenata a fare calcoli complessi e a determinare equinozi, solstizi e a misurare il tempo. “Egli per primo disegnò la circonferenza della terra e del mare ed inoltre costruì anche una sfera” prosegue con puntigliosa dovizia il nostro Laerzio.

Se chiude gli occhi, Anassimandro, si perde nel suo ápeiron e inizia a fluttuare come la terra-cilindro in cui gli uomini e le donne posano la loro orma. Fluttua la terra, sospesa, e solo gli sciocchi possono pensare che ci sia un sostegno a reggerla o dell’acqua sulla quale galleggi.

Quell’alfa privativo – ápeiron – dice tutto, sottraendo: la sostanza primigenia è priva di limiti esterni e interni, illimitata da un punto di vista qualitativo e quantitativo. L’arché di Anassimandro è uno sforzo di astrazione maggiore rispetto a quello di Talete. L’acqua non è che un elemento come altri, forse, sì, divino, ma non può essere principio primo perché, in quella che è la dinamica che caratterizza la realtà, ogni elemento cercherebbe di dominare sugli altri. Terra, acqua, fuoco, aria ciascuno cercherebbe di imporsi sull’altro ed è quindi necessario che la sostanza primigenia sia “super partes”, neutrale. “Avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne giusto di non porne nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi” ricorda Hermann Diels.

L’ápeiron è una specie di unità indifferenziata da cui si staccano i contrari fondamentali della vita: caldo e freddo, ciascuno generando altre nature, altre cose. Non è principio primo perché crea la realtà alterando se stesso, ma è principio primo perché nel suo incessante movimento da esso si staccano i “contrari”. Anassimandro non si accontenta di spiegarci come ciò accada, ma anche perché. Il suo pensiero, per quanto caratterizzato e guidato da curiosità scientifica, si mostra permeato delle concezioni religiose del tempo: la vita è figlia di “ingiustizia”, la morte è “espiazione” di tale ingiustizia, sostiene, imperscrutabile.

Noi, così lontani della mentalità greca e presocratica, forse non avremmo emesso una sentenza così dura nei confronti dell’imputata “vita”. Eppure il ridotto frammento di Anassimandro non sembra lasciare spazio a visioni ottimistiche:  “Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia”. Sembra il capitolo conclusivo di un film di Lars Von Trier o del greco Yorgos Lanthimos. Sia Friedrich Nieztsche che Martin Heidegger tornano diverse volte sulla figura del filosofo (Heidegger scrive nel 1946 il saggio Il detto di Anassimandro e per Nietzsche è Anassimandro che apre le danze dell’astrazione e della filosofia).

Cosa volesse dire Anassimandro è difficile da capire. Forse siamo in un tribunale dove l’unico vero giudice è il Tempo e nessuno di noi, come in un romanzo kafkiano, sa esattamente quali siano i capi di imputazione. Sappiamo solo di dover espirare una colpa. Forse il filosofo si riferisce a un equilibrio tra gli elementi che necessariamente corrisponde anche a un equilibrio di natura morale, a una “giustizia” che riguarda il nostro destino, destinato a finire, prima o poi. Se la nascita è da intendersi come separazione degli esseri dalla sostanza infinita, possiamo vederla come lo spezzarsi di un’unità, un cadere nel divenire, nella diversità. Quindi la vita nasce da un’ingiustizia, uno strapparsi all’ápeiron per essere gettati nel molteplice. Solo la morte può riportare all’unità, ed ecco perché forse è da intendersi come “espiazione”. “È funesto a chi nasce il dì natale”. Il poeta Giacomo Leopardi, mentre componeva Canto notturno di un pastore errante per l’Asia, stava forse pensando anche un po’ al frammento di Anassimandro?

Ma Anassimandro non è solo filosofo di sentenze ermetiche. Karl Popper definì, quella di Anassimandro “una delle più audaci, delle più rivoluzionarie e delle più portentose scoperte dell’intera storia del pensiero umano”. La terra vola in uno spazio aperto. Non c’è una divinità muscolosa come Atlante a sorreggerla sulle spalle o infinite tartarughe i cui carapaci scricchiolano dall’eternità sotto il peso della terra. Egiziani, africani, indiani, ebrei, babilonesi per quanto fossero sempre in guerra gli uni con gli altri, su una cosa concordavano: sopra la terra c’è il cielo, sotto la terra c’è qualcosa, non di certo il nulla. Come il protagonista della famosa canzone di Gino Paoli “io vedo il cielo sopra noi” e anche sotto di noi. Come fa la terra a non cascare in mezzo a tutto questo cielo? Per il fisico Carlo Rovelli si tratta di un’intuizione scientifica geniale.

E infatti su Anassimandro lo sguardo dei filosofi e degli scienziati successivi si è posato con grande curiosità e ammirazione. Bertrand Russell lo ritiene molto più interessante rispetto a Talete. Con lui il pensiero fa un salto in avanti e sgombra il campo dalle reticenze del suo predecessore. La natura va osservata, misurata, conosciuta, ma rimane una complessità metafisica che solo un principio illimitato e indeterminato può lasciare intravedere. Un conto è realizzare una carta geografica, e in questo Anassimandro pare fosse bravissimo, un conto è chiedersi qual è l’origine di tutto. L’ápeiron è risposta razionale, ma non naturalistica, bensì metafisica. La risposta non si può trovare in un elemento naturale, come l’acqua. Anche se Anassimandro, anticipando di due millenni Charles Darwin e la sua teoria dell’evoluzione della specie, era certo che dall’acqua fossimo nati noi uomini, nascosti dentro pesci. Come sorprese di un ovetto Kinder.

Bibliocitazioni:

  • Diogene Laerzio
  • Hermann Diels
  • Friederich Nietzsche
  • Giacomo Leopardi
  • Karl Popper
  • Carlo Rovelli

Cinecitazioni:

  • Lars von Trier
  • Yorgos Lanthimos

Musicocitazioni:

  • Gino Paoli

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