Monk, di nuovo un ferialissimo martedì. Ma stavolta non sono solo, c’è Carmine, sempre d’accordo quando si tratta di alzare un calice (cioè un triste bicchiere in plastica) e abbassare i toni della realtà. Si parte quindi con un camparispritz al bar. Sì, è martedì, ma per chi come me ha avuto i Marlene Kuntz come band di riferimento tra il 2002 e il 2003, il martedì è come il sabato, con un po’ meno hype.
Cristiano Godano suona stasera, e anche se è la prima data del tour e non sappiamo bene cosa aspettarci, il fatto che suoni basta e avanza. Si va, come si va a trovare un vecchio amico che ti ha insegnato a distinguere il dolore dall’estetica.
Entriamo in sala… e già l’atmosfera mi spiazza: ci sono le sedie. Tante. Serie. Disposte con cura, come a un reading di poesie in biblioteca o a un talk sulla permacultura. Va beh, ci può stare – facciamo finta di essere a teatro.

Ad aprire il concerto c’è Guido Maria Grillo, nome da tenore barocco ma attitudine da Moltheni se fosse cresciuto a Napoli. Voce e chitarra, intenso, vagamente neomelodico, ma con classe. Una di quelle esibizioni che all’inizio ti sconcertano, un po’ ti incantano, poi ti viene comunque voglia di riascoltarlo. Sta portando in giro il suo nuovo album Senza fine. Però una cosa devo dirla: perché non si usa più annunciare le “spalle” (oggi “opening act”) sui cartelloni? Pare un segreto.
Poi, lui. Cristiano. Con i Guano Padano, band di supporto elegantissima, che sembra uscita da un western girato da David Lynch con consulenza di Roy Andersson. Cappelli a falda larga, camicie e giacche sobrie, strumenti caldi. Chitarre che sanno di Johnny Cash, ma con giri mai banali, un po’ storti, quasi assurdi, pieni di reminiscenze noise in salsa cantautorale – come se l’orecchio sinistro volesse fare country e quello destro no.
Si parte con il disco nuovo, Stammi accanto (Warner 2025), eseguito tutto e in ordine, come si faceva una volta (davvero? non lo so se è così ma mi piaceva dirlo), come si fa se davvero credi nella forma-album. Godano parla pochissimo, giusto due frasi – ma lo sguardo è dentro, la voce è quella inconfondibile: non perfetta, ma perfettamente sua. Riconoscibile come una cicatrice che hai imparato ad amare. È più poesia che canto, e le parole, rare e scelte con cura, creano una tensione emotiva che ti fa dimenticare il mondo per un po’. Non credo ci sia in Italia un altro cantautore con una cura tale per la parola: “vacuità delle vacuità / slegami dagli orpelli e / portami dove scivola / ogni cosa che la mente vede, / giudica o desidera” (“Vacuità”).

Spicca “Eppure so”, il singolo – struggente e raffinato – che insieme alle altre sette canzoni si muove in un’atmosfera sospesa, tra confessione e sogno, come anche “Cerco il nulla”, pezzo che lo stesso Cristiano dichiara di adorare (“Cerco il centro di gravità, / un qui e ora eternabile, / dove il nulla che affascina / inghiottisca la realtà / i pensieri e la coscienza di sé”).
A un certo punto, dopo aver portato a termine il nuovo album come un rituale sacro, arriva una cover di David Bowie (non so bene quale, non l’ha detto e non l’ho riconosciuta – eppure mi credevo un conoscitore). Ma bella, teatrale, perfettamente incastrata in quel momento di passaggio tra presente e passato.
Poi si passa ai pezzi dal precedente Mi ero perso il cuore (2020), che oggi suonano come un’estensione naturale del nuovo percorso. Non c’è stacco, solo continuità emotiva. L’intensità di due canzoni mi colpisce particolarmente. Sono “Come ti va” (“Come ti va? / Non t’ho più visto e ti confesso / che un po’ male mi fa / perché ti so sconfitto e privo della libertà / di essere chi sei, vessato dall’avidità / di quella bestia che ti demolisce l’anima”) e “Sei sempre qui con me” (Debole / Io mi sento debole / E fragile / Io mi sento fragile / Dietro le parole”).
Il bis arriva come un vecchio regalo: dentro c’è “Karma Police” dei Radiohead, suonata con quella tensione che non è mai solo nostalgia ma rispetto per chi ha fatto la storia. E poi – finalmente – “Lieve”. Che resta una delle vette emotive del repertorio godaniano: dolorosa, evocativa, dolcemente letale. Carmine mi guarda e annuisce, io annuisco a mia volta: questo è il motivo per cui siamo usciti di casa (Cristiano, non volercene).
Finisce. Ci alziamo. Ci scoliamo una birra per chiudere il cerchio, e usciamo dal Monk con la sensazione che anche un martedì può avere un senso. Basta che ci siano le parole giuste, e qualcuno che, da trent’anni, continua a musicare il malessere con eleganza.

s.