Contro i dazi comportamentali

Elogio della disobbedienza e della diversità

Di Cristi Marcì

Sin da piccoli ci insegno che seguire specifiche norme comportamentali plasma tanto la propria identità personale quanto quella sociale.

Nell’immaginario collettivo obbedire riflette quel margine di sicurezza oltre il quale una semplice presa di iniziativa viene subito etichettata come trasgressiva per poi essere sottoposta a un ventaglio di critiche, in grado di soffocare la propria individualità.

Andare controcorrente restituisce al contrario una voce attraverso la quale tuttavia il rischio di autoproclamarsi veri e propri nemici è dietro l’angolo, instillando così una paura che pone le fondamenta sulla diversità e sulla libertà di espressione.

Alimentando di conseguenza un divario tra ciò che è ritenuto comune e già consolidato e ciò che essendo nuovo e differente garantirebbe un cambiamento.

Nel corso della storia tanto le novità quanto il cambio di percezione sono sempre state sottoposte a critiche, indagini approfondite e sentenze che hanno messo a repentaglio la vita di chi semplicemente voleva fare del cambiamento stesso una risorsa e ancor più una norma da coltivare, tramandare e condividere.

Eppure il bagaglio storico e ideologico di cui ognuno è portatore conferma quanto disobbedire significhi tradire un’idea “socialmente condivisa” e rispetto alla quale per anni la propria identità si è retta in funzione di una legge prestabilita: dove però la propria voce è stata costretta a cedere il passo al silenzio.

Dove la libertà di essere sé stessi doveva fare i conti con l’ottusa forza di una credenza (come ad esempio quella religiosa nel medioevo) pronta a segnare la vita e la morte di chi osava ed osa tutt’ora proporre una prospettiva differente.

Nel corso dei secoli la figura che ne ha pagato maggiormente le spese è stata quella della donna, la cui intrinseca molteplicità ha rappresentato un limite e finanche un qualcosa di spaventoso da estirpare e dissolvere nel nulla.

Se obbedire significa aderire a una legge suprema viceversa la disobbedienza valorizza quella risorsa grazie alla quale non tradire la propria voce e tantomeno la direzione che essa desidera farci intraprendere.

In accordo con il noto psicoanalista junghiano James Hillman è opportuno operare un processo di revisione di quei canoni e quelle norme sociali che in maniera automatica rischiano di collocare la nostra identità al servizio di una legge unilaterale che non tiene per nulla conto della propria individualità.

Secondo l’autore la corrente del nominalismo rispecchia quel pericolo concreto capace di incasellare la propria libertà di espressione in un’unica direzione, trasformando la parola in uno strumento di repressione la cui natura si esprime in una imposizione ideologica e comportamentale priva di ulteriori vie d’uscita; rispetto alla quale la repressione cede il posto alla privazione delle proprie risorse intrapsichiche e alle molteplici modalità di espressione.

Secondo Hillman obbedire al richiamo primordiale del Dàimon, vuol dire disobbedire e ribellarsi a quell’unico ruolo che ci è stato imposto e che al contempo non consente né la fioritura né tantomeno la scoperta delle migliaia di voci che albergano a nostra insaputa.

Disobbedire vuol dire quindi rispettare la propria natura che ogni giorno rischiamo di tradire attribuendole significati univoci e spesso limitanti ma in conformità con quelle leggi esterne che riteniamo essere capaci di valorizzare la nostra stessa identità.

Riscoprire la propria immagine

Immaginare non solo è un’attività produttiva per la coscienza, ma al contempo un vero e proprio toccasana in grado di ripristinare quegli ingranaggi della mente che nel quotidiano entra in contrasto con l’esterno e le sue imposizioni.

Se da un lato la nostra frenesia rispecchia un linguaggio prettamente sociale, nonché un modus operandi di tipo normativo, implicito e ormai acquisito viceversa l’attività immaginativa è forse ad oggi l’unica capace di far rifiorire un dialogo autentico e libero da quegli schemi entro i quali rischiamo di spegnerlo.

Quanto infatti risulta abitudinario e del tutto prevedibile, rischia tuttavia di alimentare uno stile linguistico capace di inscriversi entro i nostri pensieri, i nostri modi di riflettere ma ancor più di corrompere il proprio orientarsi nel mondo.

Abolendo quegli interrogativi che invece di porre dei limiti valorizzerebbero la nascita di nuovi stili comunicativi, sia intrapsichici che interpersonali.

In accordo con la visione di Gianrico Carofiglio il dubbio difatti contiene quella evanescente imprevedibilità grazie alla quale è possibile mettere in discussione ciò che già si conosce ma che sovente trasmette un’illusoria sicurezza.

Se sotto il profilo neurobiologico l’immaginazione è in grado di attivare la zona creativa degli emisferi cerebrali, nel quotidiano ci guida nel trovare soluzioni inaspettate.

Nello specifico infatti essa non rappresenta altro se non il ponte d’unione tra la nostra parte più antica e i nostri desideri, i quali troppo spesso rischiamo di non accogliere.

Ripristinare il linguaggio delle immagini che ci abitano vuol dire entrare gradualmente a contatto con un spazio ed un tempo diversi da quelli ordinari e rispetto ai quali il rapporto di causa-effetto si sgretola dinanzi ad una moltitudine sconosciuta, imprevedibile e proprio per questo ricca di opportunità.

Connotata peraltro da quel valore simbolico che grazie all’immaginazione amplia non solo la percezione di quanto ci circonda bensì la consapevolezza con la quale far fronte a ciò che è in atteso. Rendendo la disobbedienza una consapevole e rinnovata risorsa.

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Immagine: Alexandre Cabanel, L’angelo caduto, 1847


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