Bugo ha lasciato la musica con un concerto di commiato il primo aprile 2025, decapitazione artistica che avvera la profezia della copertina di Golia & Melchiorre. Geniale far pensare a un pesce d’aprile quando in realtà era serissimo – almeno per ora. Se ascoltate la sua lettera ai fan dice, fra le altre, due cose molto importanti: non trova più gusto a scrivere canzoni, che sente assomigliare troppo a loro stesse, e che se Bugo fosse una band basterebbe scioglierla, ma dato che è un solista non gli resta che smettere direttamente di scrivere, fare dischi, concerti ecc. – ciò in realtà lascia qualche spiraglio per il futuro: quante band sciolte si sono poi riunite, anche decenni dopo?
Se Vila-Matas riscrivesse oggi il suo Barlteby e compagnia Bugo potrebbe certamente farne parte. Chissà se, come il Monsieur Teste di Valéry si è sbarazzato della sua biblioteca, lui si sbarazzerà degli strumenti. Forse no, d’altronde dice che non scriverà più canzoni, non che non toccherà più una chitarra.
È raro che un cantante celebre – anche se il pubblico generalista lo conosce perlopiù per le ragioni sbagliate (ovvero la lite con Morgan sul palco di Sanremo) – interrompa volontariamente la sua carriera a soli 50 anni. Ma proprio per questo rappresenta un precedente fondamentale. È bello avere un esempio di coraggio, libertà e onestà come quello di Bugo, perché dimostra che nessuno è costretto a recitare in eterno il proprio personaggio. C’è una certa grandezza nell’ammettere che un capitolo è finito e nel rifiutarsi di prolungarlo per inerzia o convenienza. Troppo spesso gli artisti diventano prigionieri del loro stesso nome, costretti a ripetersi per non deludere il pubblico, per non perdere rilevanza, per non rinunciare a un’identità che, col tempo, diventa più soffocante che liberatoria. Ma questo vale per tutto e per tutti, non solo per l’arte e gli artisti. Vale per il lavoro, le relazioni, le passioni…
Certo, probabilmente bisogna avere il “culo parato” o un piano b, ma uno se lo può sempre inventare un nuovo piano b, c, d, e (in realtà proprio questo dovrebbe essere un buon argomento a favore di un reddito che sia svincolato dal lavoro). Pavese, che poi, lo sappiamo, ha preferito la fine, nel Mestiere di vivere scrive che “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”. Ed è vero: il pensiero che non torneremo mai più a fare qualcosa per la prima volta è come essere già morti. Ma non solo cominciare è bello, anche smettere, fare altro, fare mille cose insieme, non essere mai una cosa sola, e soprattutto mai quello che gli altri vorrebbero o si aspettano da noi.
Un’abdicazione del genere non si vedeva dai tempi di Ratzinger, non può non suscitare clamore, non può non smuoverci qualcosa dentro. Su due piedi, nel campo della musica mi vengono in mente due grandi esempi di rinuncia, finiti però con il ritiro definitivo, ovvero la morte autoinflitta: Tenco e Cobain. (Il primo, fra l’altro, teneva sul comodino quel libro di Pavese – del secondo ricorre proprio oggi il trentunesimo anniversario della morte). Entrambi avevano profondi motivi personali per lasciare tutto, ma anche una certa insoddisfazione nei confronti della musica. Per Tenco fu una protesta esplicita contro le canzonette senza spessore, per Cobain, il quale nella lettera d’addio scrive che non prova più emozione a salire sul palco, una protesta velata nei confronti di chi lo ha trasformato in una gallina dalle uova d’oro.
Ora, Bugo, nella sua lettera ai fan, spende solo buone parole per l’ambiente musicale italiano, e attribuisce l’intera decisione del suo ritiro alla mancanza di stimoli personali. Tuttavia, non possiamo non credere che la mancanza di stimoli non dipenda in qualche misura anche dallo stesso ambiente musicale. Due considerazioni mi sembrano imprescindibili: 1) un ambiente musicale in cui un bravo cantautore come Lucio Corsi diventa il salvatore della musica d’autore italiana, è un ambiente, per definizione, morto. Significa che in Italia, in generale, non si fa buona musica, o, più correttamente, che la buona musica non ha spazio, non emerge, non viene proposta nei contesti mainstream perché il gusto del pubblico va in un’altra direzione. A un certo punto si dà spazio a un Lucio Corsi e con la sua qualità viene a galla, al contempo, tutto il marcio del sistema. 2) Non c’è cosa più assurda e penosa del considerare Bugo come un buffo personaggio portato alla ribalta da Morgan. Qualcosa non va. Se parliamo di musica d’autore, originalità, innovazione, Bugo è un gigante, lo è sempre stato. Sarà un problema generazionale, certo, perché io mi ricordo bene il Bugo dei primi anni Duemila, ma non smette di essere un problema oggi. Significa, ancora una volta, che il gusto del pubblico (generalista) va in un’altra direzione, che preferisce avere un bersaglio facile da sbeffeggiare alla musica, lo spettacolo all’arte. Non dev’essere facile per uno che ha scritto pezzoni come “Casalingo” o “Nel giro giusto” sentirsi ingabbiato in questo ruolo declassante.
È ovvio, l’industria musicale, da quando esiste, non ha altro scopo che fare soldi con gli artisti. Il grave problema di oggi sono proprio gli artisti, che non fanno gli artisti ma si adeguano preliminarmente a quello che vorrebbe da loro l’industria per fare soldi. Di qui una sempre più evidente e avvilente omologazione.
Non è più il tempo per i Bugo, facciamocene una ragione. L’importante è avere la libertà di tirarsi fuori, ricominciare, dare un valore (che non dipenda dagli altri) alle nostre vite.

s.