Boris Vian non teme i robot

Nel 1953, André Parinaud chiese a Boris Vian di esprimersi sulla rivista Arts in merito al robot-poeta di Albert Ducrocq, invenzione che avrebbe potuto far perdere il lavoro ai poeti umani. La risposta di Vian, piena di rivolta e ironia come tutto quello che lo riguardava, non si fece attendere:

[…] rendetevi conto che presto o tardi i robot faranno dei trucchi che noi non saremo in grado di fare. Noialtri non abbiamo che una cosa dalla nostra: trascuriamo tutto il resto e sviluppiamo, coltiviamo la nostra polivalenza. Ci saranno dei robot-poeti, altri soltanto cuochi, degli altri soltanto calcolatori, bene; ma per poter essere tutte queste tre cose insieme, ne occorrerebbe di volume! Noi – gli umani – non siamo perfetti, ma molto adattabili. Noi possiamo fare all’amore, leggere, suonare il piano, nuotare e costruire anche dei robot. Noi possiamo cogitare e quindi essere, e precedere l’essenza. Noi possiamo ridere. Oh, non lo nego! Alcuni robot potrebbero ridere meglio; ma senza dubbio non sono gli stessi. Il mondo è nelle mani d’una pletora di mascalzoni che vogliono fare di noi dei lavoratori, e per di più dei lavoratori specializzati: ancora una volta rifiutiamo, caro Parinaud. Impariamo tutto.

La tecnologia dal 1953 ha fatto passi da gigante e il “volume” di cui parla Vian oggi non è più un problema: il robot-poeta (che oggi chiamiamo intelligenza artificiale) sta comodamente nell’app dei nostri smartphone e pure i robot-cuochi e gli altri sono abbastanza piccoli. Non ho mai sentito parlare, effettivamente, di un bimby che mentre prepara la cena declama anche poesie, sarebbe da brevettare – ma non credo sarebbe troppo complicato. Tuttavia, Vian mette in luce un problema ancora attuale, ossia la tendenza della società in cui viviamo a renderci ingranaggi perfetti utili al suo (mica tanto) efficace funzionamento. Ma allora cosa ci differenzierà un giorno dai robot? Niente. Anzi, ci troveremo sicuramente in scacco. Non solo il poeta, ma anche l’idraulico e il chirurgo perderanno il lavoro.

Il bello dell’essere umano è proprio la sua imperfezione, cioè la possibilità di fare tante cose diverse, anche senza motivi particolari, perché gli piace, perché lo fa sentire vivo. Vian era ingegnere, scrittore, trombettista, cantautore e chissà cos’altro. E se quindi lasciassimo alla quasi infallibilità delle macchine l’ultraspecializzazione? Sarebbe un mondo bellissimo, in cui gli esseri umani potrebbero finalmente essere dispensati dal lavoro che non vogliono fare potendosi dedicare ad altro (fare l’amore, suonare il piano, nuotare…) e non solo dopo le cinque o nei weekend. Per fare questo però è necessario che il concetto stesso di lavoro venga privato della moralità con cui viene imposto. E questo è un vero problema, perché crollerebbe l’intero sistema che utilizza il lavoro come strumento di controllo sociale, affinché nulla cambi.

Dobbiamo aspettare che i robot trovino il modo di costruire altri robot-padroni, che faranno perdere il lavoro a tutti i manager, per renderci conto che è ora di cambiare rotta?

s.


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