Baudrillard e i jogger indemoniati

Jean Baudrillard, nel suo libro dedicato agli Stati Uniti (L’America, 1986) ne parla come di un paradiso, “magari anche funebre”, dove vige il paradosso dell’”utopia realizzata” in cui tutto è disponibile e pragmatico. Gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, sarebbero per questo la “versione originale della modernità” e dunque, in qualche modo, il compimento dell’umanità (come loro stessi sono convinti di essere). Qui tutto è attualità, non vi è spazio per la metafisica, solo per l’azione.

Emblema di questa “cecità” americana è il jogger, vero e proprio “indemoniato”:

Si può fermare un cavallo imbizzarrito, non si ferma un jogger in azione. Eccolo con la schiuma alla bocca, spasmodicamente intento al suo interiore conto alla rovescia, all’istante in cui passa allo stato di trance… Guardatevi soprattutto dal fermarlo per chiedergli l’ora, sarebbe capace delle peggiori reazioni. […] Ciò che lo stilista del III secolo cercava nella penitenza e nella immobilità orgogliosa, lui lo cerca nella estenuazione muscolare del corpo. È il fratello, nella mortificazione, di coloro che faticano coscienziosamente nelle sale di culturismo su macchine complicate con carrucole cromate e terrificanti protesi mediche. Vi è una linea diretta che porta dagli strumenti di tortura medievali ai gesti degli operai alla catena di montaggio, quindi alle tecniche di sviluppo muscolare del corpo mediante protesi meccaniche. Come la dietetica, come il body-building e un’infinità di altre cose, il jogging è una nuova forma di schiavitù volontaria […].

Decisamente, i jogger sono i veri e propri Santi degli Ultimi Giorni e i protagonisti di un’Apocalisse morbida. Niente evoca di più la fine del mondo di un uomo che corre solo dritto davanti a sé su una spiaggia, avviluppato nelle armonie che ha in cuffia, chiuso nel sacrificio solitario della sua energia […]. I disperati di un tempo si suicidavano nuotando al largo fino all’esaurimento delle forze, il jogger si suicida correndo su e giù sulla spiaggia. Ha lo sguardo stralunato, la saliva gli cola dalla bocca, ma attenti a non fermarlo, vi picchierebbe o continuerebbe a saltellarvi davanti come un indemoniato.

La cura maniacale per il corpo, più che per la salute, che condividono jogger e frequentatori di palestre trova il suo fondamento nella ricerca perenne di un’immagine di sé che soddisfi il desiderio di performance. Non ci sono significati reconditi, il jogger corre fino allo sfinimento perché non sa come ci si ferma, vive la sua condizione come data, immodificabile, e soprattutto grandiosa.

Di fatto, aggiungo io, il jogging così come le palestre sono stati inventati per permettere alle persone – di base, lavoratori – di avere uno sfogo (dal lavoro) e mantenersi “in forma” in una società in cui il canone di bellezza prevede gli addominali scolpiti. Esistono per il fatto stesso che esiste il lavoro inteso come dimensione pressoché unica, comunque primaria, dell’esistenza. Se non si lavorasse per la maggior parte della giornata e soprattutto non lo si facesse perlopiù da seduti, non avremmo bisogno si supplire all’accumulo di energie negative e calorie attraverso uno sforzo che si trasforma in performance – un’altra, oltre a quella che ci chiede perennemente il lavoro (e, in questa società, anche tutto il resto).

E quindi? E quindi niente, fate un po’ come vi pare. Se vi piace il modello acritico dell’american way of life andate pure avanti a correre all’infinito. In alternativa potreste rimettere in discussione tutta la cultura occidentale (poiché l’Europa, nonostante tutto, ha assunto gli Stati Uniti come modello, e comunque viviamo nell’epoca della globalizzazione e del mercato libero universale), il sistema in cui viviamo e deprimervi, oppure, più agevolmente, assumere l’inazione come forma critica di protesta nei confronti di un mondo al quale interessa solo che non ci si fermi mai. Il prezzo da pagare? Un po’ di pancetta, direi.

s.


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