Casa, serie tv e felicità

Di Alessandro Alfieri

Cosa significa vivere bene? Cosa significa essere felici? La risposta potrebbe essere “vivere come nelle serie tv” in case bellissime, tra persone affettuose, dove i problemi vengono affrontati e superati nel corso di un singolo episodio, sempre col sorriso sulle labbra e accompagnati dalle “risate over” tipiche delle situation comedy. Si tratta della “ri-mediazione della felicità”, sottolineando quella linea di continuità che il concetto di casa stabilisce proprio con quello di felicità nella tesi di Emanuele Coccia. Ce l’aveva già mostrato in maniera sagace Sam Esmail con l’inserto metatestuale del sesto episodio della seconda stagione di Mr. Robot (“Guarda davanti a te”): nell’incipit della puntata, Elliott si ritrova protagonista di un episodio di una delle sit-com americane più celebri della storia, Alf. La scena è particolarmente inquietante nella sua demenzialità, perché entra in conflitto visivamente ed esteticamente con lo stile della serie all’interno della quale tale scena è contenuta e anche perché si fa riferimento con questa devianza alla psicosi del protagonista. D’altronde il significato è chiaro: l’immaginazione di ciascuno di noi e la nostra stessa idea di felicità, sono già da sempre contaminate dall’immaginario televisivo. Questo si dimostra vero in special modo per chi è cresciuto e ha trascorso l’infanzia e la giovinezza in Unione Sovietica e guardava con occhi incantati il mondo patinato e perfetto delle serie televisive americane: per questo, in maniera inaspettata, si può pensare che la serie affiancabile da un punto di vista concettuale a WandaVision sia The Americans, che infatti indaga con uno stile diverso un tema molto simile, ovvero come entrano in relazione o in conflitto due immaginari così agli antipodi: il mondo del consumismo capitalista americano e il mondo del socialismo reale e del comunismo sovietico. Qual è maggiormente capace di esercitare il proprio fascino sull’altro, arrivando persino a contaminarlo?

Se vogliamo ragionare in termini più filosofici, il tema della felicità è connesso da un lato alla sua fattibilità, dall’altro al suo riconoscimento. Si può riconoscere la felicità quando ci si è immersi? O non c’è bisogno di uno “schermo” per poterla riconoscere come tale? Una felicità che non sia cosciente di essere tale non potrebbe essere felicità se non negli occhi di chi assiste, ovvero negli occhi dello spettatore televisivo. Soprattutto se la propria felicità è pagata col sacrificio e il dolore degli altri, che sono costretti a sottomettersi alla propria volontà. Da questa prospettiva l’argomentazione finale di Christof, regista e autore di The Truman Show (P. Weir, 1998) nell’omonimo film, non fa una piega: il mondo di Truman è assoluta felicità, assoluta tutela, anche perché gli attori che vivono a Seahaven non sono costretti da nessuno ma sono attori professionisti. Ma vedendo The Truman Show la domanda potrebbe essere: che senso ha essere star internazionali superpagate se poi la vita si riduce alla partecipazione allo show? E ancora, siamo proprio convinti che Peter Weir volesse insistere sulla natura oppositiva tra “mondo vero” e “mondo fittizio”? O non è forse vero che il mondo di The Truman Show è molto più vicino alla vita reale di quanto pensiamo, con tutte le sue ipocrisie e l’invasività di messaggi subliminali e pubblicitari? WandaVision e The Truman Show sono il mondo delle “deiezioni” avrebbe detto Heidegger, dell’inautenticità, ma non in maniera dissimile rispetto alla vita reale, che si struttura e si definisce a partire dall’influenza di modelli, linguaggi e comportamenti tratti tanto dal cinema, quanto soprattutto dalla televisione. Le comparse di The Truman Show recitano, quelle di Westview in WandaVision sono costrette a quel ruolo: si tratta di due facce della stessa medaglia, che esprimono ottimamente il rapporto che intercorre tra “recitare una parte” e vivere autenticamente, perché come sapeva Sartre noi recitiamo – senza sapere di recitare – in ogni momento della nostra quotidianità, e il lavoro delle spie del KGB protagoniste di The Americans è proprio questo: recitare, interpretare la felicità, il sogno domestico degli americani.

D’altronde Truman non potrebbe non uscire e la città contenuta nel campo elettromagnetico di Westview non può non venire distrutta, nel momento stesso in cui ai personaggi viene attribuita la consapevolezza della menzogna: non si può essere felici mantenendo la coscienza della falsità. Quando Wanda si rivolge teneramente a Visione, dicendogli “questa è la nostra casa”, è già annunciata l’impossibilità straziante di confermare quell’ambiente in quanto “casa”. E casa è anche famiglia, amore per i propri cari e soprattutto per i propri figli. Non è vero, quella non è la loro casa o meglio ne va della definizione di “casa”. Cosa è la “casa”? La casa è ciò che accoglie, è ciò all’interno della quale noi possiamo essere spontanei e godere dell’abitudine. È habitus, appunto. È privatezza assoluta, è impossibilità di accesso da parte delle autorità, almeno nelle culture democratiche e liberali, per questo è così ambita e sognata da Wanda. Ma il fatto che la “promessa” malinconica di Wanda non venga rispettata ci dimostra che, in fondo, la “casa” non esiste più nei termini dell’appartenenza spontanea: casa è mitologia consumista, casa è ciò che l’immaginario ha definito fosse casa, perché casa è l’orizzonte che anticipa il nostro desiderio e lo definisce, gioca in anticipo rispetto ai nostri stessi pensieri e rispetto alla nostra coscienza. Casa è “ideologia pratica” e concreta per dirla con Althusser, ideologia agita, sentimento, seconda natura. La casa è ciò che avvolge l’esistenza, è rassicurante, ma non dobbiamo mai dimenticare la dimensione dialettica complementare alla prima, anzi che rivela la complessità di ciò che definiamo “domestico” perché è lì che si rivela con più energia l’inquietante. La casa spesso rappresenta lo scenario più efficace dei film horror, questo perché proprio all’interno dello scrigno della quotidianità il rilassamento nervoso da parte del fruitore permette allo shock di colpire in maniera più tenace e potente. Casa perciò è anche quanto di più “perturbante” possa esserci: Sigmund Freud definiva “perturbante” (unheimlich) lo stato di coscienza che si genera ogni volta che si palesa e “affiora” ciò che sarebbe dovuto restare nascosto, perciò «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Tutto ciò che suscita spavento è tale perché inconsueto, ma non tutto ciò che è nuovo genera turbamento; per una definizione più accurata, è necessario il secondo significato di heimlich: l’aggettivo non significa soltanto “che appartiene alla casa, familiare, domestico”, ma anche “nascosto, tenuto celato in modo da non farlo sapere agli altri”.   Attraverso il perturbante qualcosa si interrompe, ciò che era sotterraneo giunge a coscienza. Si tratta di un sentimento ambiguo che emerge spesso, in maniera articolata e plurale, in molte occasioni della quotidianità, e non ultima proprio in occasione del consumo di merci e di materiali audiovisivi. Riflettere sull’etimo germanico del termine Heimat che sta per patria o elemento fondativo di un popolo o una nazione, non può non rilanciare tale ambiguità a suo modo inquietante: patria e casa hanno la stessa radice, ed esprimono probabilmente anche la medesima condanna oltre a voler indicare almeno idealmente il “tutto avvolgente” dello spirito; non è un caso che per raccontare le varie prospettive di senso legate all’Heimat, dalla dimensione romantica a quella politica e angosciante delle disgrazie del Novecento, la formula migliore sia stata quella della serialità grazie all’opera cinematografica di Edgar Reitz (1984).