Riemerge quarant’anni dopo il manifesto gotico-tribale dei derelitti irlandesi
Di Donato Novellini
Ristampato nel 2004, rimasterizzato dieci anni dopo dalla BMG per la gloriosa Grey Area della Mute assieme a tutto il catalogo di Virgin Prunes, …If I Die, I Die rappresenta il manifesto artistico del sodalizio irlandese: gotico tribale, ipnotico sulfureo mantra, delirante sberleffo sbattuto sul muso ad ogni tipo di conformismo; andazzo caotico deliquio tellurico, grottesco e cantilenante, mostruosamente onirico, epperò sapientemente curato nella forma dall’ex Wire Colin Newman, il quale ne seppe arginare le cacofoniche deformità e la tendenza spontaneista alla frammentazione; produzione effettivamente impeccabile che attenua l’impeto animalesco e le schizofreniche isterie freak degli esordi, in favore di un compiuto espressionismo post-punk, per certi versi accostabile alle prime prove di Coil e Psychic TV. Disco di retro-avanguardia, arcaico quanto dadaista, non privo di tetre evoluzioni sperimentali, pregno di umori mefitici e spiritate litanie, trattiene nelle 9 tracce una teatrale crudeltà – Antonin Artaud per l’appunto, omaggiato anche da Bauhaus, qui diventa maestro di cerimonie e nume tutelare – peculiare agli interessi multidisciplinari, premusicali, del collettivo
dublinese. Affatto derivativo o di maniera, come invece caratteristico della seconda ondata goth, l’albo ospita ben tre classici della controcultura Dark e dei club più oscuri: “Pagan Lovesong”, “Walls Of Jericho” e “Baby Turns Blue”, in seguito estrapolati ad uso danzereccio da quello che sembra essere un unico, blasfemo, rituale mefistofelico senza soluzione di continuità. Non meno radicale l’aspetto esteriore: dalle sessioni fotografiche di Ursula Steiger provengono l’immagine per la copertina originale e quella, leggermente diversa, utilizzata 22 anni dopo dalla Mute per la ristampa, nonché gli scatti collocati sul retro e nella busta interna. In fronte il quartetto in posa circense, alle prese con una lingua di fuoco tra manichini e colonne greche neoclassiche, è acconciato come si trattasse di affrontare un sabba suburbano nei pressi di uno scalcinato sgabuzzino adibito a tempio pagano; la band è ritratta a tinte bluastre con tecnica fotodinamica, ovvero “mossa”, di derivazione futurista (copyright fratelli Bragaglia); a contrasto, sul retro predominato da nuances terragne, i musicisti appaiono seminudi, avvolti in sgualciti stracci, quali novelli fauni mimetizzati nella natura selvaggia, in un florilegio di pose primitive e panteismo di ritorno alla maniera delle tribù nomadi nordiche precristiane, giustappunto nella cattolica Irlanda. Verrebbe spontaneo, quarant’anni dopo, uno spietato paragone con certi fenomeni musicali attuali, vuoti pneumatici imbellettati, convinti di essere provocatori, liberi e anticonformisti, solo per il fatto d’ostentare una superficiale androginia – trucco parrucco, unghie pittate e mossette – poco più di uno scherzo di cattivo gusto rispetto alla luciferina arte di Gavin Friday e soci.

…If I Die, I Die – Virgin Prunes, Rough Trade, 1982.