Quella volta era un venerdì sera e stavo per godermi un fine settimana all’insegna del riposo e dell’assenza di contatti umani non richiesti. Suonò il telefono di mia moglie, era il fratello, ci stava invitando a cena fuori il giorno dopo. Fine dell’idillio. “Non possiamo non andare, li abbiamo già bidonati due volte questo mese”. Ne ero perfettamente consapevole, una stretta al cuore mi fece pensare che non sarebbe stato male morire in quel momento. L’idea di passare la serata insieme a mio cognato e il suo compagno era francamente ripugnante, questo perché sono due ingegneri con l’hobby dell’ingegneria, una cosa che ho sempre trovato deplorevole. Ma quando pensavo non potesse andare peggio arrivò un altro messaggio a mia moglie con scritto: “Si aggiunge a noi anche Geppino, un mio collega, con la fidanzata”. Perché Dio mi stavi facendo questo? Sapevo di non essere un uomo esemplare, ma di certo non mi meritavo una punizione di tale crudeltà. Il locale che avevano scelto era una pretenziosa braceria che serviva solo carne al sangue, praticamente animali appena ammazzati e sbattuti sul piatto. Geppino era in sollucchero e iniziò a mangiare senza l’uso delle mani sbattendo convulsamente la mascella sul piatto, sembrava un cinghiale. Io chiesi alla cameriera se poteva cuocere un po’ di più la mia carne ma lei si rifiutò categoricamente. In realtà non vedeva l’ora di svelare la sua vera identità: non era una cameriera ma un’animalista in borghese che proprio quella sera doveva dare una dimostrazione esemplare del suo credo. Estrasse un’accetta e fece a pezzi Geppino tra le urla di disgusto degli altri commensali. La fidanzata di Geppino si buttò nel forno per la disperazione mentre mio cognato e il compagno avevano già ingerito il cianuro che si portavano sempre dietro per ogni evenienza. Io e mia moglie eravamo sconvolti, non ci avevano nemmeno dato il tempo di mangiare. Tornammo a casa affamati.
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